lunedì 14 dicembre 2015

Illegittimità sciopero discrezionale.

La Corte di Cassazione, in una decisione del 3 dicembre, ha stabilito che le forme di interruzione o sospensione del lavoro parziali o temporanee (scioperi a scacchiera od a singhiozzo) possono rivelarsi illegittime allorquando importino pericoli o danni o alterazioni all'integrità e funzionalità degli impianti ovvero pregiudichino la produttiva stessa dell'azienda, compromettendo, cioè, la stessa organizzazione istituzionale e di funzionalità produttiva dell'impresa.
Nel caso concreto, la Corte ha dichiarato l'illegittimità delle modalità di proclamazione dello sciopero oggetto di giudizio poiché il comunicato diramato dai rappresentanti sindacali invitava i lavoratori ad uno sciopero ad oltranza per ogni giorno lavorativo e per l'intera giornata all'interno del quale ogni lavoratore poteva aderire come, quanto e quando lo ritenesse più opportuno.
Simili modalità di esecuzione, rimesse integralmente alla discrezionalità dei singoli lavoratori, oltre ad esporre il datore di lavoro a pregiudizi, esorbitano dai limiti interni ed esterni del diritto di sciopero, posto che ne snaturano la forma e le finalità tipicamente collettive e pongono in serio pericolo la produttività e l'organizzazione dell'azienda al punto da doverle certamente considerare illegittime.
Lo sciopero deve, dunque, ritenersi illegittimo ogniqualvolta difetti dell'indicazione preventiva delle modalità di esercizio del diritto e le cui modalità di esecuzione siano demandate totalmente ai singoli interessati senza alcuna predeterminazione. 

Cass. Civ., Sez. Lav., 03/12/2015 n. 24653.


mercoledì 2 dicembre 2015

L'art. 18 Statuto Lavoratori come riformato dalla Legge Fornero si applica anche al pubblico impiego.

A stabilirlo è stata la Cassazione, che nella sentenza in oggetto ha affermato che in caso di licenziamento intimato al pubblico impiegato in violazione di norme imperative, quali l’art. 55-bis, comma 4, del D.Leg.vo n. 165/2001, si applica la tutela reintegratoria di cui all’art. 18 legge n. 300/70, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, trattandosi di nullità prevista dalla legge.
I Giudici di legittimità non hanno avuto dubbi circa l'applicabilità del nuovo articolo 18 dello statuto dei lavoratori anche ai dipendenti del pubblico impiego, al punto da non ritenere necessario una pronuncia della Corte Costituzionale sull'argomento, come richiesto dall'ente pubblico ricorrente nel caso in cui gli emellini avessero deciso in senso contrario.
Dovrebbe così risolversi, nonostante le forti resistenze di parte della politica e degli interessati, l'annosa questione circa l'applicabilità o meno dell'art. 18 ai dipendenti pubblici.
nella motivazione si legge che lo Statuto dei lavoratori, ivi comprese le modifiche apportate sia dalla Legge Fornero che dal Jobs Act, si applica non solo al comparto privato, ma anche ai lavoratori assunti presso le amministrazioni pubbliche. Infatti, l'articolo 51 del D.Leg.vo n. 165/2001 (Testo unico del pubblico impiego) dispone appunto che lo Statuto dei lavoratori, con le sue "successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti", venendo meno così ogni sperequazione fra il comparto pubblico e quello privato.
Il testo integrale della sentenza è scaricabile dal link sottostante.

lunedì 30 novembre 2015

Il premio fedeltà deve essere computato nel T.F.R.

La Cassazione ha stabilito che il premio di fedeltà, acclarato come derivi eziologicamente dal rapporto di lavoro, laddove non vi sia una esplicita esclusione deve essere  calcolato nella base di computo del trattamento di fine rapporto.
I Giudici di legittimità hanno, infatti, osservato che  il premio fedeltà è computabile nella base di calcolo ai fini della determinazione del trattamento medesimo, trovando la propria fonte di riferimento sostanziale nella protrazione dell'attività lavorativa per un certo tempo ed essendo lo stesso rigorosamente collegato allo svolgimento del rapporto di lavoro, anche se non alla effettiva prestazione lavorativa.
Inoltre, proseguono gli ermellini, pur essendo la contrattazione collettiva abilitata, ai sensi dell'art. 2120, comma 2, c.c. a definire liberamente la retribuzione utile ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto, escludendovi o includendovi qualsiasi voce, spettando all'autonomia delle parti determinare il peso che questa forma di retribuzione differita deve assumere nell'economia del rapporto, tuttavia, quando la contrattazione collettiva non disponga altrimenti si applica, pur con riferimento alle singole voci -in danaro o in natura- erogate a titolo occasionale, la regola della onnicomprensività della retribuzione. Ed analogamente, conclude la Corte, deve ritenersi quando la contrattazione collettiva non sia chiaramente ed univocamente espressiva della volontà delle parti contraenti a livello nazionale di escludere una determinata tipologia di emolumento dal computo del T.F.R..
Cass. Civ., Sez. Lav., 20/11/2015 n. 23799

domenica 1 novembre 2015

Licenziamento dirigente giusta causa e giustificatezza.

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nell'affermare che il licenziamento per giusta causa del dirigente è una modalità di cessazione del rapporto di lavoro,  che trova giustificazione solo nel caso in cui si verifichi un fatto che non ne consenta la prosecuzione, neanche in via provvisoria e, pertanto, unicamente quando ricorrano detti presupposti, il datore può procedere a licenziare in tronco ex art. 2119 c.c..
Il carattere di eccezionale gravità che connota la misura sanzionatoria in questione ha condotto all'elaborazione di un concetto di giusta causa molto rigoroso: esso deve essere individuato in una grave lesione del vincolo fiduciario del datore nei confronti del dirigente. Proprio in virtù della portata del recesso ad nutum operato dal datore, non tutte le mancanze del dirigente possono essere considerate idonee a giustificare simile forma di licenziamento e, conseguentemente, il giudice è chiamato di volta in volta a valutare se gli addebiti contestati possano condurre ad una sua applicazione corretta.
Nel corso del tempo, la giurisprudenza chiamata a pronunciarsi su tale argomento ha sviluppato un'ampia casistica e di seguito pare opportuno richiamare alcuni dei comportamenti che legittimano il licenziamento per giusta causa:
- appropriazione abusiva da parte del dirigente di beni dell'azienda;
- assunzione da parte del dirigente della qualità di socio e di amministratore di un'impresa concorrente, anche qualora non vi sia un'indicazione negoziale specifica in tal senso;
- svolgimento di altre attività in violazione del patto stipulato tra le parti che prevedeva il divieto di esercitare altre attività sia in forma retribuita che gratuita;
- gravi negligenze e trascuratezze nello svolgimento delle funzioni tali da determinare la violazione dei doveri fondamentali di diligenza, buona fede e fedeltà ex art. 2104 c.c.4;
- attività di concorrenza sleale svolta durante il rapporto di lavoro attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso.
Ovviamente gli esempi appena formulati non hanno la pretesa di essere un elenco esaustivo, vi è, tuttavia, una matrice comune a ciascuno di essi che deve essere presa nella dovuta considerazione: tutte le condotte sopra richiamate sono tali da porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento da parte del dirigente e, dunque, in grado di rompere il vincolo fiduciario e legittimare il licenziamento per giusta causa.
E' doveroso fornire a questo principio la giusta importanza, posto che esso rappresenta il presupposto indefettibile per ogni ipotesi di licenziamento in tronco.
La giurisprudenza, a tutela del dirigente, ha reiteratamente precisato che il datore di lavoro, pur nella sua maggiore libertà, è sempre tenuto al rispetto dei principi generali giuridici di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto e ciò per attenuare in qualche modo la posizione di minor tutela in cui indubbiamente versa il dirigente, in virtù del maggior potere di cui gode, sia pure a cagione dell'elevato contributo positivo che apporta alla vita aziendale grazie alle sue determinanti qualità. 
Il principio di correttezza e buona fede può quindi ritenersi, in buona sostanza, il parametro che i giudici assumono come base sulla quale misurare la condotta del datore di lavoro. In estrema sintesi, il licenziamento ingiustificato del dirigente, pur essendo sottratto ad entrambi i regimi della tutela obbligatoria (ex legge 604/96) e reale (ex articolo 18 legge 300/70), trova la sua regolamentazione nella contrattazione collettiva di categoria.
I requisiti che consentono il licenziamento per giusta causa sono stati oggetto della trattazione che precede mentre la figura della “giustificatezza contrattuale”, come individuata dall'opinione corrente, costituisce un criterio di valutazione più ampio, dal quale rimangono esclusi solo l’ipotesi di un licenziamento arbitrario o discriminatorio nonché ogni comportamento del dirigente che sia oggettivamente inidoneo ad incidere irreversibilmente sul rapporto fiduciario che lo lega al datore di lavoro, rispetto al “giustificato motivo”. Tuttavia, ai fini del licenziamento, non è possibile ritenere sufficiente qualsiasi motivazione apparentemente non pretestuosa poiché un criterio così stretto finirebbe, in pratica, per legittimare la piena libertà di recesso del datore di lavoro.
Pertanto, ai fini della giustificatezza del licenziamento ben può rilevare qualsiasi motivo, purché giustificato, ossia costituente base di una decisione coerente e sorretta da motivi apprezzabili sul piano del diritto, i quali non richiedono l'analitica verifica di specifiche condizioni, ma una globale valutazione che escluda l'arbitrarietà del licenziamento
La facoltà di recesso del datore di lavoro, infine, incontra un ostacolo insormontabile nel momento in cui si pretenderebbe di accollare a carico del dirigente, che è pur sempre un dipendente, una qualunque forma di rischio di impresa, come tale inammissibile nel rapporto di lavoro subordinato.  

martedì 20 ottobre 2015

Legttimo il licenziamento per giusta causa comminato al dipendente per utilizzo PC e fumo sostanze stupefacenti.

La Corte di Cassazione ha recentemente riconosciuto la legittimità del  il recesso intimato dal datore di lavoro al lavoratore che, durante l'orario di lavoro, abbia visionato per lungo tempo un personal computer introdotto senza autorizzazione ed abbia fumato due sigarette preparate con sostanze stupefacenti.
Nella pronuncia in questione gli ermellini hanno ritenuto incensurabile la pronuncia della corte territoriale che, in riforma della decisione di prime cure, aveva rigettato la domanda proposta dal ricorrente nei confronti del datore di lavoro, riguardante l'impugnativa del licenziamento per giusta causa. La Corte ha ritenuto la motivazione della sentenza impugnata logica ed adeguata,  con conseguente preclusione del sindacato di legittimità circa la valutazione delle emergenze istruttorie. Ciò in quanto il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare ed addebito contestato è devoluto al giudice del merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contradditoria. Nella fattispecie è stato ritenuto corretto l'operato della Corte di Appello di Torino poiché essa  ha preso in considerazione, ai fini della proporzionalità della sanzione del licenziamento, la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento nonché ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro, ed in tale contesto, ha altrettanto correttamente tenuto conto della specificità dei compiti affidati al lavoratore rispetto ai quali il comportamento addebitato, risultato accertato alla stregua delle emergenze istruttorie, è stato ritenuto idoneo a far venir meno irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro nella correttezza delle future prestazioni lavorative.

venerdì 16 ottobre 2015

Pubblico impiego risarcimento danno non patrimoniale da mancata promozione

Il pubblico dipendente che ha subito illegittimamente la mancata promozione in una posizione più prestigiosa e redditizia, deve vedersi riconosciuto il risarcimento dei danni non patrimoniali corrispondenti al danno biologico ed esistenziale. La mancata progressione di carriera, pertanto, ove imputabile  ad un provvedimento illegittimo dell'amministrazione, determina il sorgere del diritto al risarcimento del danno biologico ed esistenziale a favore del soggetto interessato.
I punti essenziali della motivazione elaborata dai Giudici del Consiglio di Stato possono essere sintetizzati come segue:
1) Il danno biologico ed esistenziale deve essere provato, anche nel suo legame con i fatti basati su presunzioni semplici;
2) Il danno cosiddetto esistenziale nella fattispecie veniva ravvisato nella "mancata acquisizione di prestigio", che costituiva un elemento della personalità e della posizione del ricorrente;
3) Il danno si è tradotto in una tensione, stato di disagio, ansia e turbativa per questa mancata nomina che ha leso il prestigio e le aspettative del ricorrente;
4) Le prove del danno sono costituite da certificati medici attestanti "tachicardia parossistica con cardiopalmo", "probabile somatizzazione", il tutto avvenuto nel periodo immediatamente successivo alla mancata nomina;
5) Il risarcimento è stato determinato in via equitativa.

lunedì 21 settembre 2015

Licenziamento, assenza ingiustificata, clausola contrattuale.

La clausola di un contratto collettivo che preveda un certo fatto quale giusta causa o giustificato motivo di licenziamento non esime il giudice dalla valutazione di proporzionalità fra il provvedimento espulsivo adottato dal datore di lavoro e la gravità del fatto addebitato all'incolpato. La necessità di tale valutazione discrezionale tuttavia non sussiste quando si tratti di fattispecie di illecito disciplinare formulata non già con espressioni elastiche ma rigidamente predeterminata e non sussistano circostanze attenuanti.
La Suprema Corte ha ribadito la decisione di merito che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro ad un lavoratore dipendente per assenza ingiustificata dal lavoro durata più di tre giorni cosi come previsto e disciplinato dalla contrattazione collettiva relativa al settore dell'industria agroalimentare, non avendo alcun rilievo la "grossa conflittualità" tra le parti atteso che questa non può che essere geneticamente connessa a quei rapporti che sfociano nel licenziamento.
Cass. Civ., Sez. Lav., 11/09/2015, n. 17987


giovedì 17 settembre 2015

Sostituzione maternità e mansioni ammissibilità ius variandi

Con la sentenza n. 6787 del 19 marzo 2013 la Cassazione ha ribadito che nella sostituzione di maternità il datore di lavoro ha la facoltà di collocare il nuovo a,ssunto a svolgere mansioni anche diverse da quelle della lavoratrice assente per esigenze aziendali.
Infatti il nuovo assunto, per la sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, non deve essere necessariamente destinato alle medesime mansioni e/o allo stesso posto del lavoratore assente, atteso che la sostituzione ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze dell’impresa; pertanto, non può essere disconosciuta all’imprenditore, nell’esercizio del potere autorganizzatorio, la facoltà di disporre in conseguenza dell’assenza di un dipendente l’utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i più opportuni spostamenti interni.
Cass. sentenza n. 6787/13


mercoledì 10 giugno 2015

Controllo del datore di lavoro creazione falso profilo facebook

La creazione, da parte di preposto aziendale e per conto del datore di lavoro, di un falso profilo facebook, al fine di effettuare un controllo sull’attività del lavoratore, già in precedenza allontanatosi dalla postazione lavorativa per parlare al cellulare, esula dal divieto di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, trattandosi di controllo difensivo, volto alla tutela dei beni aziendali, insuscettibile di violare gli obblighi di buona fede e correttezza in quanto mera modalità di accertamento dell’illecito comportamento del dipendente.
Cass. Civ., Sez. Lav., 27/05/2015 n. 10955


venerdì 5 giugno 2015

Licenziamento disciplinare bancario

La Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare per giusta causa irrogato da una banca ad un proprio impiegato ritenuto responsabile di aver proposto ad un cliente di finanziare una società per la realizzazione di un capannone mediante l'utilizzo di somme provenienti dallo smobilizzo di capitali detenuti presso l'istituto di credito. I giudici di legittimità motivano la propria decisione affermando che il conflitto tra l'interesse del dipendente e quello del datore di lavoro, nonché la palese violazione dei doveri di riservatezza giustificano la massima sanzione espulsiva.
Cass. Civ., Sez. Lav., 28 maggio 2015, n. 11056


giovedì 28 maggio 2015

No a depenalizzazione reato omesso versamento ritenute previdenziali ed assistenziali

La Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui il delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, non può ritenersi abrogato per effetto diretto della L. 28 aprile 2014 n. 67, posto che tale atto normativo ha conferito al Governo una delega, implicante la necessità del suo esercizio, per la depenalizzazione di tale fattispecie e che pertanto, quest'ultimo, fino alla emanazione dei decreti delegati, non potrà essere considerato violazione amministrativa.
Cass. Pen., Sez. III, 19 maggio 2015, n. 20547


mercoledì 20 maggio 2015

Cancellazione files legittimo licenziamento giusta causa

E' legittimo il licenziamento intimato per giusta causa nei confronti del lavoratore responsabile di aver cancellato tutti i documenti di lavoro dal suo computer ivi compresa la corrispondenza elettronica. 
Motivando la decisione assunta, la Cassazione afferma che il lavoratore ha l'obbligo di conservare con diligenza i beni aziendali, in aggiunta a ciò, la condotta assume rilievo penale, potendosi configurare il reato di danneggiamento, circostanze tutte che giustifica la sanzione del licenziamento per giusta causa.
Cass. Civ., Sez. Lav., 14 maggio 2015, n. 9900






lunedì 11 maggio 2015

Giusta causa licenziamento permesso retribuito

Costituisce giusta causa di licenziamento la condotta del lavoratore il quale, durante la fruizione di un permesso retribuito richiesto al datore di lavoro per assistere la madre affetta da grave disabilità, aveva partecipato, in realtà, ad una serata danzante.
La Corte di Cassazione ha precisato che, a fronte della richiesta del lavoratore di usufruire di un giorno di permesso retribuito ai sensi della Legge 104/92 allo scopo di assistere un familiare, l'aver trascorso il permesso dedicandosi ad un’attività ludica del tutto estranea alla finalità assistenziale propria dell’istituto utilizzato, costituisce condotta contraria al cosiddetto minimo etico, giustificando la sanzione massima espulsiva anche in assenza di previa affissione del codice disciplinare.
Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza n. 8784 del 30/04/2015


mercoledì 22 aprile 2015

risarcimento dipendente poste rapina mancanza tutela

Il dipendente delle Poste ha diritto ad essere risarcito dal datore di lavoro in caso di rapina, se questo non ha predisposto mezzi idonei di tutela.
Precisa la Suprema Corte che, trattandosi di attività a cui è connaturata la movimentazione di somme di denaro, costituisce preciso dovere della parte datoriale quello di predisporre e mantenere in efficienza mezzi di tutela, concretamente attuabili secondo la tecnologia disponibile nel periodo temporale di riferimento, ed almeno potenzialmente idonei a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori in ossequio al dettato dell'art. 2087 c.c.. Ciò non significa, prosegue la Cassazione, che tali mezzi debbano essere certamente in grado di impedire il verificarsi di episodi criminosi ai danni dei dipendenti, ma che i medesimi almeno si risolvano in misure che, secondo criteri di comune esperienza, possono risultare atti a svolgere, al riguardo, una funzione dissuasiva e, di conseguenza, preventiva e protettiva.
Cass. Civ., Sez. Lav., 13/04/2015, n. 7405

mercoledì 25 febbraio 2015

Licenziamento dirigente

La Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale il recesso del dirigente deve comunque ricollegarsi ad interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento e dunque a ragioni obiettive ed effettive che permettano la verifica di detti interessi operando sempre il principio di buona fede e correttezza (ex artt. 1175 e 1375 c.c.) quale limite al potere datoriale di recesso, non essendo, per altro verso, la libertà di iniziativa economica in grado ex se di offrire copertura a licenziamenti immotivati o pretestuosi.
Pertanto il licenziamento del dirigente può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro sui cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato sulla libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost..
Cass. Civ., Sez. Lav., 17/02/2015 n. 3121

giovedì 22 gennaio 2015

Trasformazione contratto

Nel caso di trasformazione, in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di più contratti a termine succedutisi fra le stesse parti, per effetto dell'illegittimità dell'apposizione del termine, l'indennità risarcitoria, dovuta ai sensi dell'art. 32, comma 5, L. 4 novembre 2010, n. 183, ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprendendo tutti i danni "retributivi e contributivi" causati dalla perdita del lavoro a causa dell'illegittima apposizione del termine, con riferimento agli "intervalli non lavorati" fra l'uno e l'altro rapporto a termine; al contrario, i "periodi lavorati", non solo nel primo, ma anche nei successivi contratti del periodo intermedio, una volta inseriti nell'unico rapporto a tempo indeterminato, fanno parte dell'anzianità retributiva e devono essere considerati ai fini della quantificazione degli aumenti periodici di anzianità.
Cass. Civ., Sez. VI, 12/01/2015, n. 262

Malattie Professionali

In tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità. Il principio, già espresso dal giudice di legittimità (Cass. Civ., n. 10818 del 2013), è stato riaffermato di recente.
Cass. Civ., Sez. Lav., 14/010/2015 n. 467

giovedì 15 gennaio 2015

Lavoro licenziamento compromissione capacità lavorativa

Deve ritenersi legittimo il licenziamento intimato dal datore di lavoro al prestatore di lavoro subordinato che, senza riferirgli alcunché, abbia continuato a svolgere una pratica sportiva del tutto incompatibile con le sue condizioni fisiche, creando al contempo le condizioni per il rischio di aggravamento delle condizioni medesime.
L'obbligo di fedeltà posto a carico del lavoratore subordinato, specifica la Cassazione in adesione ad altri precedenti in tema, ha un contenuto più ampio rispetto a quello risultante dall'art. 2105 c.c., dovendosi integrare con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro. In particolare, in tema di licenziamento per violazione dell'obbligo di fedeltà, il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 c.c., ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ivi compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno.
Cass. Civ., Sez. LaV., 09/01/2015, n. 144

mercoledì 7 gennaio 2015

Reperibilità riposo settimanale compensazione

Il servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo settimanale limita soltanto, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposo stesso e comporta il diritto ad un particolare trattamento economico aggiuntivo stabilito dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, determinato dal giudice, mentre non comporta, salvo specifiche previsioni della contrattazione collettiva, il diritto ad un giorno di riposo compensativo.
La reperibilità, prevista dalla disciplina collettiva, si configura come una prestazione strumentale ed accessoria qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro, consistendo nell'obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato, fuori del proprio orario di lavoro, in vista di un'eventuale prestazione lavorativa; conseguentemente, il servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo settimanale limita soltanto, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposo stesso e comporta il diritto ad un particolare trattamento economico aggiuntivo stabilito dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, determinato dal giudice, mentre non comporta, salvo specifiche previsioni della contrattazione collettiva, il diritto ad un giorno di riposo compensativo, il cui riconoscimento, attesa la diversa incidenza sulle energie psicofisiche del lavoratore della disponibilità allo svolgimento della prestazione rispetto al lavoro effettivo, non può trarre origine dall'art. 36 Cost., ma la cui mancata concessione è idonea ad integrare un'ipotesi di danno non patrimoniale (per usura psico-fisica) da fatto illecito o da inadempimento contrattuale, che è risarcibile in caso di pregiudizio concreto patito dal titolare dell'interesse leso, sul quale grava però l'onere della specifica deduzione e della prova. 
Cass. Civ., Sez. Lav., 18/12/2014, n. 26723

Licenziamento disciplinare contestazione dell'addebito

La previa contestazione dell'addebito, necessaria in tutte le sanzioni disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.
Il principio in questione si inserisce nell'orientamento ormai consolidato della Suprema Corte,  secondo il quale il requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di un'indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice del merito.
Cass. Civ., Sez. Lav., 18/12/2014, n. 26744