Dottrina e giurisprudenza sono concordi nell'affermare che il licenziamento per giusta causa del dirigente è una modalità di cessazione del rapporto di lavoro, che trova giustificazione solo nel caso in cui si verifichi un fatto che non ne consenta la prosecuzione, neanche in via provvisoria e, pertanto, unicamente quando ricorrano detti presupposti, il datore può procedere a licenziare in tronco ex art. 2119 c.c..
Il carattere di eccezionale gravità che connota la misura sanzionatoria in questione ha condotto all'elaborazione di un concetto di giusta causa molto rigoroso: esso deve essere individuato in una grave lesione del vincolo fiduciario del datore nei confronti del dirigente. Proprio in virtù della portata del recesso ad nutum operato dal datore, non tutte le mancanze del dirigente possono essere considerate idonee a giustificare simile forma di licenziamento e, conseguentemente, il giudice è chiamato di volta in volta a valutare se gli addebiti contestati possano condurre ad una sua applicazione corretta.
Nel corso del tempo, la giurisprudenza chiamata a pronunciarsi su tale argomento ha sviluppato un'ampia casistica e di seguito pare opportuno richiamare alcuni dei comportamenti che legittimano il licenziamento per giusta causa:
- appropriazione abusiva da parte del dirigente di beni dell'azienda;
- assunzione da parte del dirigente della qualità di socio e di amministratore di un'impresa concorrente, anche qualora non vi sia un'indicazione negoziale specifica in tal senso;
- svolgimento di altre attività in violazione del patto stipulato tra le parti che prevedeva il divieto di esercitare altre attività sia in forma retribuita che gratuita;
- gravi negligenze e trascuratezze nello svolgimento delle funzioni tali da determinare la violazione dei doveri fondamentali di diligenza, buona fede e fedeltà ex art. 2104 c.c.4;
- attività di concorrenza sleale svolta durante il rapporto di lavoro attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso.
Ovviamente gli esempi appena formulati non hanno la pretesa di essere un elenco esaustivo, vi è, tuttavia, una matrice comune a ciascuno di essi che deve essere presa nella dovuta considerazione: tutte le condotte sopra richiamate sono tali da porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento da parte del dirigente e, dunque, in grado di rompere il vincolo fiduciario e legittimare il licenziamento per giusta causa.
E' doveroso fornire a questo principio la giusta importanza, posto che esso rappresenta il presupposto indefettibile per ogni ipotesi di licenziamento in tronco.
La giurisprudenza, a tutela del dirigente, ha reiteratamente precisato che il datore di lavoro, pur nella sua maggiore libertà, è sempre tenuto al rispetto dei principi generali giuridici di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto e ciò per attenuare in qualche modo la posizione di minor tutela in cui indubbiamente versa il dirigente, in virtù del maggior potere di cui gode, sia pure a cagione dell'elevato contributo positivo che apporta alla vita aziendale grazie alle sue determinanti qualità.
Il principio di correttezza e buona fede può quindi ritenersi, in buona sostanza, il parametro che i giudici assumono come base sulla quale misurare la condotta del datore di lavoro. In estrema sintesi, il licenziamento ingiustificato del dirigente, pur essendo sottratto ad entrambi i regimi della tutela obbligatoria (ex legge 604/96) e reale (ex articolo 18 legge 300/70), trova la sua regolamentazione nella contrattazione collettiva di categoria.
I requisiti che consentono il licenziamento per giusta causa sono stati oggetto della trattazione che precede mentre la figura della “giustificatezza contrattuale”, come individuata dall'opinione corrente, costituisce un criterio di valutazione più ampio, dal quale rimangono esclusi solo l’ipotesi di un licenziamento arbitrario o discriminatorio nonché ogni comportamento del dirigente che sia oggettivamente inidoneo ad incidere irreversibilmente sul rapporto fiduciario che lo lega al datore di lavoro, rispetto al “giustificato motivo”. Tuttavia, ai fini del licenziamento, non è possibile ritenere sufficiente qualsiasi motivazione apparentemente non pretestuosa poiché un criterio così stretto finirebbe, in pratica, per legittimare la piena libertà di recesso del datore di lavoro.
Pertanto, ai fini della giustificatezza del licenziamento ben può rilevare qualsiasi motivo, purché giustificato, ossia costituente base di una decisione coerente e sorretta da motivi apprezzabili sul piano del diritto, i quali non richiedono l'analitica verifica di specifiche condizioni, ma una globale valutazione che escluda l'arbitrarietà del licenziamento
La facoltà di recesso del datore di lavoro, infine, incontra un ostacolo insormontabile nel momento in cui si pretenderebbe di accollare a carico del dirigente, che è pur sempre un dipendente, una qualunque forma di rischio di impresa, come tale inammissibile nel rapporto di lavoro subordinato.